Mi sveglio euforica in evidente stato di alterazione. Trentasei settimane e due giorni, anche se sono trascorsi quasi undici anni è la seconda gravidanza, ho imparato a riconoscere il succedersi di ormoni, quello che sta circolando nel corpo introduce nuova energia. Ne approfitto. Faccio la spesa riempiendo la casa di desideri, metto in ordine più del necessario, organizzo tutto come se dovessi assentarmi all’improvviso; mancano quattro settimane alla data presunta del parto, non c’è fretta, eppure l’istinto mi immerge nell’azione.
Nel pomeriggio percepisco primi segnali di cedimento, verso sera le contrazioni aumentano, vorrei resistere ancora, a mia figlia non sfugge nulla: «Se non chiami il ginecologo lo faccio io». Così alle ventuno mi ritrovo al Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I collegata al monitoraggio. La dottoressa di turno non ha dubbi sul ricovero immediato. Entro in reparto, mi affaccio in una sala dove medici e infermieri stanno guardando un concerto in televisione, farfugliano distrattamente che non ci sono posti disponibili. Mi somministrano flebo per ridurre le contrazioni su una barella nell’anticamera della sala parto. Con me ci sono quattro donne. La delicata cinesina dopo poche ore se ne va per dare alla luce il suo sesto bambino. Con le altre trascorro tutta la notte: una signora sicura di sé, una giovanissima ragazza avvolta nel chador che parla solo arabo (entrambe in procinto di partorire); una donna che piange disperata, ha perso per l’ennesima volta il suo bambino in uno stadio molto avanzato, al mattino partorirà un corpo senza vita. Avrebbe necessità di protezione, conforto, assistenza psicologica, so che in molte strutture questo accade. Pura crudeltà lasciarla abbandonata tra l’attesa di vagiti che un giorno non la chiameranno mamma.
La ragazza araba ha un disturbo al cuore, deve seguire una serie di accortezze tra cui la completa immobilità, le spiega in romanesco l’infermiera, lei non capisce, digita un numero e porge il cellulare sorridendo, ha bisogno che le si traduca la situazione. «A Naima, te pare che me devo pure mette a parla’ al telefono», borbottando se ne va lasciandoci sole.
Ci confortiamo tra noi fino all’alba, protette da una quieta solidarietà sostenuta dagli sguardi. Poi Naima si alza per inginocchiarsi verso La Mecca.
Alle otto del mattino mi attaccano nuovamente a un monitoraggio. Calma piatta, nessuna segnalazione, le contrazioni le percepisco sempre più forti, la macchina non le registra e nessuno mi crede. Pratico e insegno yoga, riesco a tenere sotto controllo il dolore con una certa disinvoltura, ma sento che la situazione peggiora. «A casa, a casa!» ripetono tre medici diversi che si susseguono, ne arriveranno altri a dire la stessa frase nell’arco delle ore in cui mi rifiuto di muovermi. E la tentazione ad andarsene è forte, basterebbe solo il pensiero della spesa golosa, considerando che ormai sono ventiquattro ore che non mangio (e quando sono incinta ho sempre fame), di più che non mi lavo e non mi cambio. Però ho imparato a conoscermi e ad ascoltare i segnali, quindi resisto alle tentazioni e mi impunto nel restare cercando di spiegare a questi signori che non sono pazza.
Mantengo nel verbalizzare e nel rispondere una calma integrale: «Capisco che capitino donne con falsi allarmi, in preda al panico, vi assicuro che non è il mio caso». Sguardi ironici, «lei non si comporta come una che sta in travaglio». Certo, dovrei urlare e contorcermi, invece di ripetere regolari respiri lunghi e profondi cercando con determinazione nella mente pensieri felici. «Lo so, è una mia caratteristica, poi la meditazione, il pranayama…», all’improvviso capisco che insistere con questa versione di me non fa altro che renderli ancora più scettici e beffardi. Sono l’esatto contrario di un’invasata new age, nell’approfondire le discipline orientali mantengo un approccio scientifico, detesto le verità preconfezionate, questi dettagli non interessano i medici, continuano a ripetere «a casa, a casa!» senza prestarmi alcuna attenzione.
Quando comincio a temere che mi buttino fuori di forza, decido che - anche se mi dà il voltastomaco ricorrere ai sistemi tipici dell’italietta del nonsachisonoio - è arrivato il momento di riferire che ho anche un’altra identità, magari più seria per i loro occhi; mi sono occupata di inchieste (e di malasanità), scrivo, studio forme di resistenza verso gli inganni del sistema mediatico.
Questo mi fa guadagnare un minimo di credibilità e quindi ancora un po’ di tempo, ma sono pur sempre una donna in preda agli ormoni, quindi dal punto di vista maschile un’isterica delirante.
Quando anche le forze per discutere mi stanno abbandonando, sopraggiunge un angelo con le sembianze di anziana ostetrica attirata dal trambusto, «quella è la macchina rotta!», esclama, «non fa contatto, proviamo a metterci lo scotch». Si fa silenzio intorno. L’imbarazzo paralizza gli sguardi. Un’infermiera improvvisa un collegamento con il nastro adesivo, a quel punto, placida ma decisa, esigo che mi attacchino a un altro monitoraggio. Una nuova macchina si materializza in un baleno e subito disegna potenti contrazioni.
Il mio parto all’improvviso diventa urgente. E se avessi obbedito all’ordine perentorio di lasciare l’ospedale cosa avremmo rischiato io e il mio bambino? Avrei fatto mezz’ora di macchina e quattro piani di scale a piedi (non ho l’ascensore), il collo dell’utero era serrato (resterà così anche dopo il parto, impenetrabile da una cannula di due millimetri, figuriamoci da un bambino!) quindi il blocco della via d’uscita rendeva impossibile un rocambolesco parto naturale come nei film. E se al mio posto ci fosse stata una donna più fiduciosa verso i medici che verso le proprie sensazioni? Non è assurdo consegnarsi completamente alle macchine? Se per qualche ragione falliscono è possibile che un medico non sia in grado di ascoltare, di andare oltre l’apparenza, di effettuare una diagnosi appropriata?
Vengo portata subito in sala operatoria, manca il tempo per sbrigare le norme sanitarie di prassi. Non c’è un bagno da poter adoperare, durante la notte ci eravamo tutte arrangiate usando quello dentro la sala parto pieno di sangue, violando privacy e igiene.
Allontano dalla mente l’indignazione e cerco di concentrarmi solo sulla nascita di mio figlio, determinata a rendere con l’amore quegli istanti incantati.
L’azzurro dei teli di carta in cui mi avvolgono gli infermieri lo trasformo in uno spazio di cielo, stringo in una mano un piccolo Ganesh, ripeto nella mente un mantra di benvenuto. Cerco di accogliere tutto positivamente, persino la ragazza che non trova il punto esatto per iniettare l’epidurale continuando ad infliggermi inutili e dolorosi buchi sulla colonna vertebrale, ha il diritto di imparare. «Lei ha la schiena troppo magra». Al quinto vano tentativo invoco timidamente l’intervento dell’anestesista.
Poi inizio a respirare dolcemente sostenuta dall’ossigeno che mi conduce in atmosfere alpine. Il primo vagito di Lorenzo è l’essenza stessa della vita. 18.28: gli occhi di mio figlio sono meravigliosi e mi fissano attenti, me lo lasciano solo pochi secondi. I pediatri che lo visitano dicono che sta benissimo, mi rilasso e non vedo l’ora di iniziare ad allattare, immagino di dover aspettare che il taglio venga ricucito, non ci vorrà molto. Qualcuno accende la radio, nella sala operatoria si diffondono le note di Generale «tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore». Per me e mio figlio non sarà subito così.
Conosco l’importanza dell’attaccare il prima possibile il bambino al seno e del tenerlo vicino, accoccolato tra le braccia della mamma. Alle 19 sono pronta, mi parcheggiano in corridoio, dicendomi che ancora non ci sono letti disponibili e che non possono portarmi il bambino finché non sarò sistemata. Mi abbandonano così fino all’una di notte. Solo allora, dopo numerose proteste, finalmente mi portano in una stanza. Non si effettuano dimissioni notturne, come mi confermerà la mia compagna di camera quel posto era pronto dal primo pomeriggio, non darmelo è stata una negligenza come tante altre. A questo punto è tardi e l’ostetrica non vuole portare il bambino, «è inutile, tanto non si attacca al seno», riesco a convincerla e Lorenzo, come natura vuole, inizia a ciucciare. Un’altra ostetrica lo prende per le visite del mattino, tornando lo lascia nella culla, io sono completamente distesa e non riesco ancora ad alzarmi sola, il cesareo disconnette gli addominali, le chiedo la cortesia di aiutarmi, risposta raggelante: «io porto solo i bambini», volta le spalle lasciandomi allibita di fronte a tanta immotivata scortesia. Guardo mio figlio impotente. La manovella per alzare il letto è irraggiungibile, provo a forzare sulle braccia, non ce la faccio. Dovrò aspettare l’orario delle visite per ricevere assistenza.
Molti disagi sono causati dalla recente introduzione del roaming, sembra che il Policlinico fosse l’unico ospedale romano ancora privo di questo servizio. Ottima iniziativa, tuttavia prima di effettuare modifiche sarebbe meglio attivare un’organizzazione e avvertire le mamme di quello che può servire, noi eravamo sprovviste di tutto. Nella lista del necessario da portare c’erano solo vestitini vari, le ostetriche ci fornivano i pannolini, niente creme, salviette, niente acqua calda in bagno, niente fasciatolo. Abbiamo tutte improvvisato un cambio sul letto, aiutandoci reciprocamente e scambiando il necessario che i mariti chiamati in soccorso hanno cominciato a portarci.
Nel frattempo stavo male, dolori insopportabili, da urlare, e sono la stessa donna che ha affrontato il travaglio sorridendo e respirando. Ero gonfia, non canalizzavo in nessun modo. Per l’utero serrato i medici moltiplicavano le dosi di Metergin, ma non sortiva alcun effetto se non quello di aumentare ancora di più le fitte atroci. Anche l’intestino era bloccato, quindi ancora non potevo mangiare, nel frattempo mi avevano sospeso il nutrimento via flebo. Ero distrutta, chiedevo aiuto, le uniche davvero presenti che hanno cercato in ogni modo di soccorrermi sono state alcune meravigliose specializzande. All’assenza replicata dei professori ben stipendiati si contrapponeva la presenza continua di queste ragazze piene di buona volontà, di desiderio di imparare, di rendersi utili, di ascoltare i pazienti. Le ho viste andare avanti anche per tre turni di seguito senza perdere freschezza e gentilezza nei modi; chissà se riusciranno mai a essere assunte, a ricevere un meritato stipendio, a prendere finalmente il posto di luminari troppo impegnati nelle cliniche di lusso per essere al loro posto di lavoro nell’ospedale pubblico.
È grazie a queste ragazze che ho evitato complicazioni peggiori, hanno agito appena gli ho spiegato che per la mia particolare conformazione dell’utero era risolutivo solo un intervento meccanico, mentre i farmaci peggioravano i dolori. Il problema l’ho del tutto risolto in un ambulatorio privato nei giorni successivi, con quattro diversi interventi, ma la prontezza delle specializzande ha evitato il rischio di un’infezione. Auguro loro di riuscire a defenestrare chi gli sta rubando il futuro continuando a esercitare contemporaneamente in ospedale, clinica e studio. L’ingordigia di alcuni è una delle cause della crisi del nostro desolato Paese. Il livello di disoccupazione è ai massimi storici ed è ancora più amareggiante subire la trascuratezza di chi un lavoro ce l’ha.
Mi hanno lasciata digiuna per mancanza di comunicazione tra i medici e mensa. Avere un brodino a quanto pare era impossibile. I medici ripetevano che avevo necessità di liquidi, dimenticandosi di segnarlo sulla cartella clinica. La seconda sera finisce l’acqua da bere in tutto l’ospedale per tornare il mattino seguente dopo le undici. Assetata ho avuto l’ardire di chiedere un secondo the a colazione e un’altra bustina di zucchero, mi sono stati negati. La mancanza di liquidi ha penalizzato la produzione di latte e il peso del mio piccolo, che in dimissioni era decisamente al di sotto del normale calo fisiologico. Una volta fuori le ho provate tutte, purtroppo non c’è stata altra strada che la temuta aggiunta. Le multinazionali del latte si insinuano negli ospedali e nei consigli dei pediatri, riescono con abile terrorismo occulto a far vacillare in un momento delicato anche le donne più consapevoli.
Per un’appassionata della Lega del latte, Maria Montessori e Françoise Dolto, è stato frustrante veder contravvenire le minime regole di attenzione verso i bambini. Dove andavano i piccoli quando non erano con le mamme? In una piccola stanza con luci a neon sempre accese, medici e infermieri si riunivano e lavoravano al computer, neonati mangiavano, altri venivano cambiati o visitati. Tutto questo in circa 25 metri quadri.
Anche in camera illuminazione a soffitto accecante, possibile che non ci sia un’azienda disposta a donare una fornitura di lampade da tavolo per il reparto maternità del Policlinico? Anche brutte, vecchie, fuori produzione, che diano la possibilità ai neonati di ricevere una luce soffusa e non abbagliante. Bagno disgustosamente sporco lasciato nell’incuria, solo alla parte centrale dei pavimenti una signora dedicava trenta secondi giornalieri con un vecchio straccio dal colore inquietante. Niente acqua calda.
Compresa la situazione i parenti hanno iniziato a portare: necessario per il cambio, disinfettanti, garze, cerotti, bottiglie di acqua, the, zucchero, alcuni farmaci consigliati dai medici ma non disponibili in ospedale. Mancano i soldi per i minimi bisogni del reparto maternità di uno dei principali ospedali della Capitale, ce ne sono in abbondanza per acquistare F-35. La politica della morte sconfigge quella della vita.
Intervistai Tiziano Terzani per il mio libro Regaliamoci la pace: «I valori su cui possiamo metterci d’accordo non sono quelli scritti nei libri, non appartengono a nessuna biblioteca, vivono nel cuore di ognuno. Sono i più semplici. Esiste forse una civiltà che odia i bambini? È comune fare i bambini e amarli. Allora mettiamoci d’accordo: tu non ammazzi mio figlio, io non ammazzo il tuo. Se vogliamo scriviamolo pure, ma non ce ne sarebbe bisogno, questi sono valori di tutti». Sono trascorsi dieci anni, parole che sembravano inequivocabili ora non lo sono più.
Quando mi dimettono ricevo un appuntamento da lì a due giorni: lunedì alle 10 visita pediatrica di Lorenzo, sembra obbligatoria e gratuita, scoprirò che non è così. Come scoprirò che è stato dato appuntamento a 25 bambini alla medesima ora. Ritrovo tutte le mamme compagne di avventura, in particolare sono felice di rivedere Alessandra, donna piena di energia dal sorriso intelligente, continua indignata a scattare foto a quella assurda folla di neonati in attesa. Lavora al Policlinico, è medico anestesista, il suo bimbo ha l’ittero: «Sono costretta a tornare qui tutti giorni per la terapia, ogni volta resto ore ad aspettare, da domani proverò a cercare un altro ospedale per mio figlio, qui è diventato impossibile lavorare e curarsi». Nel reparto Ostetricia, Ginecologia, Perinatologia e Puericoltura del Policlinico nella mancanza di riguardo sono democratici, non concedono favoritismi a una collega, nessuna eccezione: tutti i bambini con 6 giorni di vita ammassati in un corridoio dove si soffoca e non ci sono sedie. Finalmente compare una dottoressa ma è solo per urlarci contro con un’aggressività preoccupante che lì non possiamo allattare, è vietato. La ignoro e continuo a tenere mio figlio al seno. Alle tre del pomeriggio riusciamo ad andarcene, 5 ore di attesa per una visita a pagamento che è durata esattamente 6 minuti e mezzo.
Ho digerito l’esperienza pensando a tutte le donne che partoriscono davvero in situazioni estreme in troppi luoghi del mondo, ma come ha detto un mio meraviglioso amico volontario di Emergency: «Almeno con amore intorno».
Prima anche sul peggiore degli ospedali italiani si sentiva spesso affermare che comunque il reparto maternità funzionava bene. C’è stato un tempo in cui il nostro Paese amava i bambini, quel tempo è finito.
Federica Morrone